Avete letto bene: galantuomo. Poi l'elenco di tutti i ruoli che lui, come un grande attore di teatro, ha recitato: atleta sempre con grande impegno, poi Scuola sottufficiali, poi tecnico con tanto di "patentino", allenatore quindi, insegnante di educazione fisica, organizzatore, giornalista sempre in trincea e, soprattutto "strafatto" per l'atletica. Ma non ha mai disdegnato niente, né sulla pista né in redazione. Se lo mandavano a Tortoreto Lido per una partita di hockey pista donne, campionato regionale valido per la promozione in serie D, prendeva e andava. E in redazione potevano star certi che, mentre loro, i redattori sedentari e schizzinosi, stavano guardando qualche scampolo di una pallonara e pallosa partita alla tele, Giorgio Lo Giudice stava cercando un telefono (quelli erano i tempi) per dettare 22 o 23 righe, o anche meno, della partita di hockey da Tortoreto Lido. Magari chiedendo aiuto al custode del campo, che gli prestava il telefono (fisso) di casa sua. E il breve, affannoso componimento arrivava in tempo utile per essere messo in pagina, la notizia era salva e la pagina "chiusa". Era la "religione" del giornalismo vero, sul campo, in presenza, dicono oggi, ma non sanno cosa vuol dire. Chi scrive queste righe ha ascoltato, con non poca nausea, aspiranti ad un Premio Pulitzer che non arriverà mai, muovere critiche allo stile di Gio' non da Dolce Stil Novo ma da giornalista di trincea: qualche appunto, un telefono, e via, a dettare, a braccio come si dice nel gergo redazionale.
Giorgio Lo Giudice, classe 1936, nato in un edificio che si affaccia sul romanissimo Campo de' Fiori, così poteva ammirare ogni giorno la statuta di Giordano Bruno, arrostito dai sant'uomini con stola di ermellino e zucchetto, quelli della Santa Inquisizione. Arrostito con la bocca serrata dalla mordacchia, perchè il vero delitto sono le idee espresse con la parola. Ieri come oggi, non è cambiato niente (anzi è peggiorato). L'inquisizione, non solo quella dei preti, non è mai morta. E vicino alla casa di Giorgio, nella altrettanto romanissima via de' Giubbonari si apriva il portone della prima sezione romana del Partito Comunista Italiano, la Regola Campitelli, lasciata morire, per una manciata di denari, da quei pidocchietti della inesistente sinistra nazionale attuale. Tra quelle pareti il nostro Giorgio ha respirato vapori di democrazia, di giustizia sociale, di antifascismo. E se li è portati dietro tutta la vita. Non di sola atletica o di sport è fatto un uomo.
Perchè riparliamo di Giorgio? Questo non è un necrologio, un forbito "coccodrillo" (altro modo gergale) scritto da paludati coccodrillisti, è un ricordo, che viene da lontano. E del tutto casuale. Un nostro socio, uno di quelli che ci riforniscono di scritti, storie, biografie (son talmente tanti che non riusciamo più a starci dietro...) ci ha indirizzati al numero 3, marzo 1987, della rivista fidalina "Atletica", dove, alle pagine 56 e 57, riscopriamo una bella intervista di Enzo Bianciardi. Questo giornalista diede vita, con altri, alla romana AGR, Agenzia giornalistica radiotelevisiva. Abbiamo deciso di rendere omaggio alla memoria di una persona per bene riproponendo quello scritto, da cui esce un Giorgio Lo Giudice a dimensione reale. Anche le foto sono riprese da quelle pagine di trentotto anni fa.
In quella grande c'è davvero tutto il nostro Giorgio: penna, taccuino, appunti, si era alla Maratona di San Silvestro a Roma, anno 1980; le altre due escono da lontani ricordi di sport studentesco romano, di cui Giorgio fu protagonista; una premiazione, presente fra gli altri Bruno Zauli (terzo da destra), Giorgio è il terzo da sinistra; nell'altra, fa da scenario uno Stadio Olimpico stracolmo, Giorgio, tenuta nera, numero 29, impegnato in una finale dei 1000 metri, la sua specialità.
Giorgio Lo Giudice, scarpette, una biro, un taccuino e tanta passione
L’atletica vissuta da due angolazioni diverse, quella dell’atleta e del dirigente, ma interpretata, vista ed amata dalla stessa persona. È l’atletica, lo sport, di Giorio Lo Giudice, atleta, dirigente, insegnante, giornalista, ma soprattutto, come tiene a sottolineare, appassionato di questa disciplina. Come le tante migliaia che si trovano ancora, a dispetto dei tempi, in ogni provincia italiana. Quelli che fanno, al novanta per cento, lo sport italiano, su un prato, in pista o nel chiuso di una palestra. Una passione che nacque nel ragazzo e che successivamente ha seguito l’evoluzione stessa dell’uomo, restando, comunque, ancorata ad una visione classicheggiante, quasi mitica, figlia di una concezione che racchiude l’atletica nei ristretti confini di un ferreo dilettantismo. Cioè, in parole povere, sport.
Nel breve viaggio a ritroso verso la fine degli anni Cinquanta emerge un quadro dai colori decisi, uno scorcio di vita che rappresenta, ancora oggi, una maniera inequivocabile di fare sport. Il piacere di farlo, una scelta di vita alla scoperta di valori.
«Le giornate in campo erano lunghe e rilassanti, completa la partecipazione agli impegni sportivi della società di appartenenza. La rivalità, ad esempio, era molto sentita, noi del Centrale non potevamo vedere di buon occhio quelli del Cus. E, naturalmente, viceversa. Ogni sera si verificava il classico dopo cena (anche se esiste una pubblicazione, quasi introvabile, in cui il gusto ed il senso di quei tempi erano espressi in un titolo emblematico “Senza Cena”). L’allenamento, già intenso, era tuttavia un gioco. Non v’era la ricerca spasmodica del risultato ad ogni costo. C’era, semmai, la voglia di stare assieme».
Ed il Giorgio Lo Giudice atleta intendeva così lo sport?
«Sicuramente. Come atleta non sono mai stato un campione, pur avendo sempre fatto la mia parte. Nei 3000 siepi sono entrato fra i primi trenta nella graduatoria italiana ed in campo regionale ho ottenuto numerose soddisfazioni. All’atletica arrivai attraverso la scuola. Ecco, in questo caso, posso dire di essere un prodotto genuino dello sport studentesco e d’un buon insegnante. Fu il professor Argento dell’Istituto Righi ad indirizzarmi verso l’atletica. Il mezzofondo, le corse campestri, questa fu la mia scuola di sport».
Quando si verificò il passaggio dall’atleta al dirigente?
«Subito. Praticamente in fasi contemporanee, nel senso che sin dall’inizio oltre ad impegnarmi direttamente nella pratica agonistica svolgevo mansioni da dirigente. Il mio allenatore, Bresciani, ripeteva sempre che la prima cosa da fare era portare il proprio compagno di banco al campo sportivo. Ed infatti convinsi Ricci , compagno di scuola al mio fianco, a seguirmi. All’inizio, ricordo, avevo esitato molto prima di parlargliene, un lungaccione esile e delicato. Invece Bresciani ne fu contento ed in poco tempo ne fece un buon velocista. Quello fu il mio primo successo da dirigente. A vent’anni passai ufficialmente la barricata, indossando unicamente i panni del dirigente. Fondai, su indicazione di Alfredo Berra, la Vis Centro, una delle componenti associative del Club Atletico Centrale, occupandomi solo del settore giovanile. Nel ’62 centrammo un prestigioso successo, conquistando il titolo di campione italiano allievi per società. Tre anni più tardi, l’ingresso nel Cus Roma, dove assunsi l’incarico di dirigere il settore tecnico della marcia».
Come si svolgeva a quel tempo la preparazione in una società come il Cus?
«I marciatori della mia sezione si allenavano più o meno come oggi. Tre o quattro ore al giorno. Senza lamentele. C’era la voglia di fare. Secondo me lo sport dovrebbe essere fatto solo in questo modo».
Sull’argomento Lo Giudice si infervora.
«I giovani dovrebbe avvicinarsi allo sport solo per il gusto per il gusto di imparare a vivere. Chi chiede il rimborso spese dovrebbe essere preso a calci nel sedere, e prima ancora calci dovrebbe prendere chi insegna cose del genere. Non c’è un pubblico pagante nell’atletica come in altri sport. E lo sport non si fa con la bilancia del commerciante. Io gestisco la mia società impegnandomi economicamente anche di persona. Lo faccio perché’ mi va di farlo. Come faccio la collezione di francobolli. I risultati agonistici mi interessano poco. Non voglio una società fatta a tutti i costi di campioni. Mi basta che i ragazzi che seguo vengano attivati nel rispetto di se stessi e degli altri. Ho sempre lasciato liberi quanti mi hanno chiesto, non sono mai voluto entrare in concorrenza con la logica dei rimborsi. Chi manda o segue i ragazzi in campo dovrebbe tenere ben chiari questi concetti, in qualsiasi sport».
Uno sfogo che denuncia il disagio difronte ad una abitudine che molti contribuiscono a diffondere. Una esperienza che nasce anche dalla sua lunga pratica di Insegnante di Educazione Fisica, filtrata poi dal lavoro giornalistico.
«Iniziai ad insegnare nella scuola utilizzando l’esperienza acquisita come atleta e dirigente. In seguito, presi il diploma all’Isef. E contemporaneamente iniziai a collaborare con alcune testate giornalistiche. Le prime esperienze proprio a Milano, nella vecchia redazione della Gazzetta dello Sport, dove arrivai a seguito della mia amicizia con Alfredo Berra. Nello stesso tempo partecipavo all’attività della Gallaratese, iniziando un binomio campo sportivo e giornale, che è la mia vita».