Parecchie settimane orsono il prof Sergio Giuntini, docente di Storia dello sport e nostro socio di antica iscrizione, ci aveva introdotti alla conoscenza degli albori della letteratura sportiva con riferimento al nostro sport. Oggi pubblichiamo la prima parte di un suo lungo scritto dedicato alla letteratura atletica del periodo fascista.
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La stagione fascista ricca di successi atletici in campo internazionale (Frigerio, Beccali, Valla, Testoni, Consolini, Oberweger, Lanzi ecc.) conobbe una sintesi letteraria nei vari brani che, traendo alimento da questa disciplina, furono ospitati nella «Prima antologia degli scrittori sportivi», edita nel 1934 da Carabba a cura di Francesco Ciampitti e Giovanni Titta Rosa. Il primo tentativo, appunto, di offrire al pubblico una vasta selezione di opere prodotte dalla letteratura sportiva del Ventennio. In questa raccolta, di Curio Mortari, giornalista de “La Stampa” di Torino e già autore del romanzo ciclistico «La pista del Sud» (Lattes, 1930), si proponeva “200 metri per dame”, presentato quale anticipazione d’un volume che avrebbe dovuto avere il medesimo titolo. Libro che, peraltro, non vide mai la luce, non essendone stata reperita alcuna altra traccia oltre questo abbozzo. Esemplificativo del suo tono, è un dialogo in cui Mortari riveste la protagonista (una sorta di “signorina Pedani” deamicisiana adeguatamente fascistizzata) dei panni di un “femminismo” di maniera. Così estremizzato da apparire alla fine falso e improbabile. Tende cioè a farne il prototipo, rimasto solo sulla carta, della “donna nuova” vagheggiata dal regime. Una donna tesa a rovesciare i ruoli tradizionali, dinamica, moderna, addirittura “omerica”:
“Ho gusti eroici, solari, radioattivi. Sono una forza della natura. Voi invece mi sembrate ancora un prodotto razionalistico del secolo passato: un melanconico, un nordico, un pessimista. Non capite dunque che la ragione della nostra esistenza sta nel gusto, non nel sistema di vivere? Ma credo che vi cambierò. Vorrei misurarvi: dovete essere alto un metro e settantacinque e avere per lo meno 98 centimetri di torace. Con l’allenamento si potrà ottenere molto di più. Lo sport predispone alla vita totale. Fino ad oggi abbiamo scambiato per vita dell’individuo soltanto una parte di essa: magari quella del cervello, come insegnano i filosofi, che tra gli esseri umani sono più incompleti, quasi sempre per arresto di sviluppo. Voglio redimervi, voglio inocularvi l’amore e l’entusiasmo per l’esercizio fisico. Avete troppi preconcetti verso questa attività, che pure risorge in tutti i periodi omerici dell’umanità. Tutto ciò, d’altronde, è divertentissimo perché irrita tanti imbecilli che hanno scambiato la bruttezza per intelligenza, le deformità per privilegio. - Parlate come un baccelliere. - Allora capisco… Siete una di quelle terribili presbiteriane che vanno ai comizi e tengono dei meetings per la emancipazione della donna! - No, voi non capite ancora. Tutta la vostra intelligenza e la vostra coltura non sono riuscite a darvi la chiave di una creatura semplice e primitiva come sono io […]. E, come avviene a tutti gli uomini, avete cercato le spiegazioni più strane e più spregiudicate. Se io vi fossi venuta incontro ballando il tango con le anche, fumando una sigaretta e strizzandovi l’occhio ad acciuga, secondo la tradizione oleografica che in Europa si attribuisce ai nostri paesi, voi mi avreste probabilmente creduta subito. Ebbene sappiatelo: sono invece una specialista pedestre, inviata dal suo Governo per partecipare ai Giochi olimpici del Sud: prova di “200 metri per dame”.
Di Bruno Fattori, l’antologia del ’34 scelse un componimento poetico tratto dalla raccolta «Linee azzurre», Liriche sportive (Caesar, 1933). Più espressamente la non invero trascendentale “Corsa veloce”:
«Sull’alluce nerbuto/ tesa al balzo la volontà,/ nell’aria lieve fiuto/ la preda di velocità./ Allo sparo, che smaglia/ la catena de le gioconde/ fronti, son l’agil scaglia/ lanciata da bimbo a fior d’onde/ e già, fiume sonoro,/ il plauso de le gradinate/ scende e m’investe, coro/ d’ansie all’improvviso inceliate…».
“Chi sa dove è rimasto l’ultimo maratoneta? E’ calata la sera, lo stadio è ormai vuoto, e lungo la via anche i più ostinati curiosi sono andati a cena. Il vincitore dorme, sorridente, coi muscoli sciolti dai massaggi e dal riposo, nella stanza c’è odor di rose e canfora. L’ultimo è ancora lontano; si è seduto sull’erba di un prato ai margini della strada, sotto un albero, quando il cuore gli è mancato e il respiro gli è salito in gola, e ancora non ha fiato per rialzarsi; si è tolto le scarpe, pensa alla gloria che ha perduto e si guarda i piedi rossi, lividi. Quando riprenderà la via, comincerà da solo una triste e lunga marcia di tremila chilometri per tornare a casa”.
E da ultimo anche Ciampitti, uno dei due curatori, compare nel volume con un suo brano, “Il lanciatore di giavellotto”, estrapolato dal romanzo «Cerchi» (Carabba, 1934). Di Isernia, dove nacque nel 1903, Ciampitti occupò un posto di rilevo nella letteratura sportiva del tempo. Laureato in legge e collaboratore de “Il Mezzogiorno Sportivo”, Cerchi fu in concorso alle Olimpiadi dell’Arte di Berlino (1936). Giochi a cui egli fu presente da giornalista ricavandone una serie di ritratti confluiti nella raccolta «Campioni del mondo» rimasta inedita. In precedenza con un altro suo romanzo, «In cammino e arriverò», successivamente intitolato più suggestivamente «Novantesimo minuto», vinse il primo premio letterario indetto dalla Federazione italiana giuoco calcio (Figc) nel 1932. In “Il lanciatore di giavellotto” Ciampitti accompagna il suo atleta nel dubbio e nella solitudine che precedono la prova. Lo segue nei gesti tecnici ripetuti all’infinito, meccanicamente. In quegli attimi di estrema tensione e concentrazione che finiscono soltanto col gesto del lancio liberatorio, catartico:
“Ecco il suo turno: nella vastità del campo il megafono ha scandito il suo nome ed egli si è ritrovato solo sul posto donde inizierà la rincorsa. La mano s’adatta sull’impugnatura di corda, dapprima lentamente, poi con una stretta ferrea e tutti i muscoli del braccio, fino alla rotondità della spalla, partecipano allo sforzo. Per un attimo gli occhi dell’uomo fissano lo spazio fra i suoi piedi e la linea bianca e poi guardano la distesa che sta oltre di questa, cosparsa lontano di picchetti bianchi di legno. Poi la destra si allenta, il braccio si alza e si ripiega nel gomito, sicché la mano, che impugna l’attrezzo, sfiora quasi l’orecchio. Lentamente l’ampio torace si colma in una inspirazione profonda di aria e l’atleta parte…uno, due, tre, quattro, cinque passetti brevi sulla punta dei piedi, col corpo in avanti, poi passi più lunghi, più veloci e poi ancora più rapidi. Di botto il corpo s’inarca sulla schiena, la destra porta indietro l’attrezzo, stendendosi, la rincorsa scaglia contro il vuoto l’atleta e l’atleta scaglia contro il cielo l’attrezzo […]. L’attrezzo era partito come se si fosse staccato dalla carne… vibrava ora alla sommità della parabola, accennava ad andare dritto per poco s’abbassava… E l’atleta lo seguiva cogli occhi, lo spingeva nel volo con la esasperazione della sua ansia, col suo sguardo, con la sua volontà, tratteneva il respiro quasi che così avesse potuto ritardare la caduta, restava proteso con tutto l’essere suo, non vedeva più nulla, non sentiva più nulla. Soltanto guardava l’asta di legno filare l’aria e gli sembrava di avere nelle orecchie come un lieve sussurro di ala: aveva fischiato l’attrezzo, sfiorandogli il capo. Ecco: ricadeva. Egli non lo vedeva più contro il colore del cielo, lo distingueva su quello della folla, addensata sugli spalti. Il giavellotto ricadeva. Tutta la forza di propulsione sembrava che si fosse spenta nella gravità metallica del puntale: le fibre di legno non reggevano più la distanza. Ricadeva. L’ultimo brivido fece piantare l’asta per terra e si spense. Bruno sta ora con gli occhi fissi in avanti e non intende neppure quel brusio che si va levando dalla folla. Trascorrono dei secondi, poi si fa silenzio e il megafono annunzia: “metri settantatre”
(parte prima - segue)