Il prof. Sergio Giuntini ci accompagna, in questa seconda parte del saggio sull'atletica leggera nella letteratura fascista, alla scoperta (per chi non li avesse mai letti prima...) di alcuni autori che hanno cercato ispirazione nel nostro sport. Non tutti si elevano ai vertici della buona letteratura, ma fanno parte comunque parte della vicenda letteraria di un'epoca che ebbe nello sport una fonte di ispirazione.
Seconda parte
Esaurito il capitolo relativo agli autori compresi nella Prima antologia degli scrittori sportivi, vale ora soffermarsi su Orio Vergani e Alessandro Pavolini, impegnati nel raccontare la prova “regina” della velocità. Vergani, firma di punta del “Corriere della Sera” capace di passare con naturalezza dalla “terza pagina” della cultura al Giro d’Italia e al Tour de France fino all’enogastronomia, nel suo volume «Festa di maggio. Racconti e bozzetti sportivi» (SEI, 1940) incluse il brano “100 metri” dando un saggio d’alta scuola delle sue indiscusse qualità stilistiche. Una prova d’autore alla ricerca, per certi versi “eugenetica”, dello sprinter perfetto. Una descrizione minuziosa dell’uomo più veloce al mondo che in un lampo, vissuto il suo attimo fuggente, non lo sarà più:
“Una nota sola. Un endecasillabo solo. L’ultimo verso del sonetto. L’acuto che corona e chiude la romanza. Cento metri di corsa. La lettera A e la lettera Z dell’alfabeto atletico. Lo sforzo più elementare e più complesso. Il problema che si risolve sulle cinque dita e l’algebra dei calcoli infinitesimali. Un miliardo di uomini passati al setaccio della pista per trovare quell’unico che, se l’umanità fosse disposta su una linea sola, su una linea di partenza lunga migliaia e migliaia di chilometri, e venisse lanciata innanzi, in massa alla più alta velocità possibile, per una distanza di cento metri, sopravanzerebbe tutti, all’arrivo, di un centimetro, di due, di tre, di mezzo metro, di due metri, di dieci, di venti, di cinquanta. Un uomo solo, un uomo di venti o ventidue anni, innanzi a tutti gli altri: lo spasimo del suo sforzo finale, la convulsa agonia del suo viso, lo strappo tentacolare nell’ultimo metro d’aria, la nudità quasi lacerata dai muscoli, il guizzo urlante dei suoi tendini, la schiavitù disperata del suo unico respiro, il martello rotondo e pauroso del cuore che sfonda le costole e la gola, la durezza di spasimo delle mascelle attanagliate dal cavo della distanza, il gioco delle rotule e dei femori nei loro incastri levigati, la chiamata al soccorso dei nervi, l’S.O.S. lanciato a mille lontane sorgenti di volontà, di resistenza e di scatto. Un uomo solo. Per venti anni il mistero della vita ha lavorato dentro e attorno a quest’uomo. Ha tornito, limato, levigato queste ossa, questa carne, questi muscoli, questi tendini […]. In tutte le parti del mondo, i cento metri di migliaia e migliaia di piste, a tutte le ore, in tutte le stagioni, vengono percorsi a passo disperato, a gran carriera, a folate vertiginose, da centomila uomini di vent’anni […] col cuore in gola, gli occhi sbarrati nella tenebra, a cercare sul cuscino il filo di lana bianca del traguardo tagliato netto in sogno con lo scatto che hanno gli angeli, i demoni e i personaggi dei sogni. Le stagioni setacciano i nomi. E l’umanità distratta, a un certo punto, si vede attorno i nomi nuovi, all’orizzonte, come le parole delle notturne pubblicità luminose. Nomi che ancora non dicono troppo: Macalister, Legg, London, Lammers, Williams, Wykof… Nomi buoni per tutto: per marche di impermeabili, per autori di romanzi, per automobili americane, per specialità di medicinali, per finalisti olimpici della corsa dei cento metri […]. Un attimo dopo l’uomo più veloce del mondo è passato. La dea non gli chiede neppure il nome. Scende dalla scaletta bianca. Sa che quest’uomo ha già vissuto l’estremo violento e dolcissimo spasimo della velocità, e che già, in questo splendore, qualcosa della sua meravigliosa macchina è bruciato. Come si chiamerà il successore che ora è un fanciullo e che sarà, un giorno, più veloce ancora? Lascia lo stadio, la dea Velocità. Va a cercarlo, per le mille vie del mondo, tra miliardi di uomini nuovi che attendono, e non sanno”.
E da Vergani a un Pavolini, poco noto quale scrittore. Un versante della sua biografia oscurato dai ruoli di vertice occupati nella politica fascista da potente ministro della Cultura popolare durante il regime e poi da segretario del partito a Salò nell’avventura sanguinaria della Repubblica sociale italiana (Rsi). Pavolini in seno al fascismo fiorentino e nazionale aveva la fama di “liberale”. Una fama non meritata giacchè la sua personalità fu sempre duplice, difficilmente decifrabile. Salottiero e insieme fucilatore. Amico di Galeazzo Ciano e suo carnefice. Tutto e il contrario di tutto. Un Giano bifronte legato sino all’ultimo solo al suo duce. Egli proveniva da una famiglia di intellettuali e letterati, essendo il padre Paolo Emilio professore di sanscrito all’Università di Firenze e il fratello Corrado poeta dal tratto delicato ed elegante. Proprio queste origini ne stimolarono forse le velleità letterarie, spingendolo sin a scrivere di sport. Nel 1928 pubblicò (da Campitelli di Foligno) un romanzo sul ciclismo che portava il titolo «Giro d’Italia», e nei suoi progetti vi era anche quello, irrealizzato, di dare alle stampe un saggio di filosofia sportiva: «I giuochi del paradiso terrestre». Al contrario nella silloge «Scomparsa d’Angela» (Mondadori, 1940) inserì il racconto “100 metri” aperto da questo incipit:"Quando penso a Niccolò vedo prima di tutto una linea orizzontale. Tutti e due, poco più che adolescenti eravamo abituati a pensare le nostre vite con in fondo una retta sottile e sospesa, il traguardo". Niccolò è l’atleta proteso verso gli europei (di fantasia) di Helsinki, l’altro è l’amico il cui sport senza impegno è la vela. A interporsi fra i due è una ragazza che entrambi desiderano. Ciò pare allontanarli, ma quando lei partirà gli amici si riavvicineranno e, in Finlandia, l’amico geloso farà il tifo in tribuna per il “Niccolò ritrovato”. Vi è stato chi, come il critico Enzo Siciliano, in questa trama ha inteso intravedere una specie di trasfigurazione/premonizione del rapporto, sfociato nel dramma vittima-carnefice, tra Pavolini e Ciano. Un legame apparentemente profondo, e in seguito irreparabilmente distrutto dall’infedeltà del genero del duce il 25 luglio 1943. Una tesi che però, al di là dell’esser presentato Niccolò come livornese, la città d’origine di Ciano, sinora non ha trovato altri convincenti riscontri. Ad ogni modo le parti più riuscite del racconto pavoliniano, intriso di psicologismo, sono quelle che riproducono l’attesa spasmodica del centista prima del via e dello sparo. Una metafora dei momenti infiniti e decisivi d’ogni vita destinata a tagliare il traguardo:
“Si costeggiava dal prato il tratto di pista che lo riguardava. I cento metri di polvere rossa, compatta, elastica, rigata dai binari bianchi delle corsie. Mi parlava, per esempio, della posizione da prendere sulla linea di partenza, punta delle dita a contatto del suolo, orecchio al colpo di pistola, occhio al filo laggiù. Più che di spiegazione, il suo tono era allora di confidenza: come di chi, pensando ad alta voce, ripassi fra sé il senso della propria vita. Parlava dell’attimo dello stacco, di quell’unico battito di cuore che divide la lenta vita degli undici secondi vertiginosi. Come un motore in silenzio, che debba accendersi un tratto al massimo dei giri (“il mio cuore non è famoso”, avvertii). Niente rincorse, avvii come in altre gare. Nessuna possibilità come nel salto con l’asta o nei tuffi, di indugiare, scegliersi il momento, il giusto battito del cuore. Niente. Una pistolettata e via. Ma appena ci si allontanava dallo stadio egli si allontanava; mi batteva le sue espansive manate di livornese, scherzava, divagava con spirito; riprendeva dinoccolato a errare per le giornate come un’anticamera. Ormai, però, io sapevo bene che se c’era uno della nostra età il quale non si distrasse mai veramente era lui, Niccolò. Era appunto come quei tuffatori che sostano a lungo sulla cima del trampolino e guardano l’acqua e non la guardano, e pare che il tempo non abbia valore per loro lassù, sospesi a mezz’aria: ma in realtà essi lavorano, lavorano ad aspettare un certo loro istante da cogliere, quello e non un altro, da buttarglisi dietro al volo. Così Niccolò nel suo andirivieni, in quella spaziosità di vigilia che conservava nella sua vita. Aspettava un certo momento. Sempre guardava e non guardava un certo filo, teso ad altezza di cuore. Né si trattava (anche questo sapevo ormai) di un traguardo qualsiasi: ma di un traguardo ben preciso, sebbene ancora lontano nello spazio e nel tempo. Campionato europeo di Helsinki: la finale… Oh, una pista rossa, là come a Livorno; e una pistolettata, e via. Ma le corse che Niccolò poteva disputare prima d’allora, in realtà non erano per lui che prove e rappresentazioni di quello. Erano, nella sua gioventù d’attesa, un accelerarsi breve, poco più che una fitta al cuore. Egli guardava laggiù, a quel dato filo sulle rive del Baltico. E dopo? Dopo, certo, si sarebbe messo agli studi, a una carriera. Ma questo lo dicevamo noi, suoi amici. A parlarne a lui, non è che lo negasse. Semplicemente si rifiutava di considerare qualunque cosa, la quale fosse al di là di quella linea sospesa sottile. Ne avrebbe avuto, direi, un senso come di tradire”.
Infine ecco la gara con un epilogo quasi alla Samuel Beckett. Una tensione bruciata in una manciata di secondi, restando tuttavia sospeso l’interrogativo sul vero significato di quell’attesa:
“Quando partirono e corsero io li vidi avventurarsi verso il traguardo come un’onda frontale, compatta. Conoscete in queste cose il gesto con cui le chiude il vincente, gettando in avanti in un estremo sforzo il petto a toccare primo il filo? Così fece Niccolò. Ma fu come se il filo contenesse una corrente: e il cuore gettato in avanti non reggesse il leggerissimo urto. Cadde sull’erba acciambellata, come un levriero”.
In conclusione, l’atletica leggera declinata in letteratura produsse in epoca fascista degli esiti alterni. Prove di valore invero assai modesto ed altre, si pensi in particolare a Ciampitti, Vergani, Pavolini decisamente più meritevoli. Questo del resto fu il livello generale medio della letteratura sportiva fascista, troppo condizionata dalle pressioni del contesto politico e spesso incapace di andare oltre la propaganda o la retorica di regime.
(fine)