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Così titolava la rivista «Atletica» nel presentare la notizia che anche l'Italia avrebbe avuto una pista e un campionato nazionale al coperto. Oggi abbiamo il piacere di pubblicare un ricordo di una persona che visse da dentro la nascita della pista e del campionato: Augusto Frasca. Augusto, oggi vicepresidente del nostro Archivio Storico, fu nominato Capo dell'Ufficio Stampa della FIDAL nella riunione del Consiglio Federale, il 14 dicembre 1969. Rimase in quell'incarico fino a giugno del 1989, vivendo quindi in diretta gli anni più esaltanti dell'atletica italiana. E non tutto era facile e semplice, ma c'era una volontà smisurata di far crescere questo nostro sport. Oggi, Augusto ha messo nero su bianco per il nostro sito alcuni ricordi, curiosità, annotazioni su quella prima esperienza nazionale «indoor», che coglieva di sorpresa il nostro sonnacchioso ambiente atletico. Nelle puntate precedenti abbiamo cercato di darvi brani di articoli, risultati, nomi di protagonisti. Non possiamo chiudere meglio questa nostra modesta ricostruzione con una testimonianza diretta come quella di Augusto. Che ringraziamo.

Il legno era d'acero, la volontà d'acciaio

di Augusto Frasca

Legno d'acero canadese lavorato ad Ottawa, trasferito in Europa nella patria degli 'scarafaggi', paracadutato via treno all'interno di un genovese Palazzo della Fiera sbigottito dall'invasione aliena. Da qualche giorno segretario generale in pectore al terzo piano della sede di viale Tiziano 70, inviato speciale su dettato presidenziale, fruendo nelle ricorrenze natalizie di una preziosa deviazione sentimentale a Düsseldorf, Luciano Barra aveva giorni prima sottoscritto a Liverpool, nero su bianco, in uno con il mediatore Ron Davis, il contratto per il trasferimento della pista alla stazione merci Terralba del capoluogo ligure: 200 metri di sviluppo, quattro corsie da 0,91, dirittura centrale a sei da 1,22 allungata fino ai 78 metri. In una ventosa mattinata di pieno inverno, scartando ipotesi pessimistiche e arrampicatosi all'ultimo piano del grattacielo della Terrazza Martini, lo stesso Primo Nebiolo aveva celebrato in netto anticipo la nascita dell'evento. Era l'epoca di un'atletica regionale compattata attorno alla figura nobile di Tullio Pavolini, al pragmatismo di Gino Raneri, affiancato nella gestione contabile dall'acribia millimetrica di un segretario a nome Domenico Calcagno e dalla passione di Giacomo Cordano, l'uomo, il sessantasettenne pensionato, il giudice benemerito che avremmo ritrovato in estate, tricolore svettante, sulla pista di Sarajevo, alla testa della truppa azzurra uscita esultante da una semifinale di Coppa Europa ospitata in una città ancora lontana, vittima sacrificale, dai contrasti etnici che nell'indifferenza del mondo l'avrebbero ridotta ad una purulenta pozza di sangue. Quello del 22 e 23 marzo 1970 fu, dalle nostre parti, il battesimo febbrile di una specialità per decenni condannata all'esoticità e appena orecchiata attraverso gli incunaboli di primo Novecento prodotti oltre Oceano da un superbo poker d'assi nazionale: secondo alternarsi di stagioni, Dorando Pietri con la serie di affermazioni nel catino del Madison Square Garden, Emilio Lunghi, tre primati mondiali nel 1909 tra New York e Montreal, Ugo Frigerio, imbattuto nel 1925 negli Stati Uniti con la firma di sei migliori prestazioni mondiali, e Luigi Beccali, volato a New York con le medaglie di Los Angeles e Berlino e prossimo a trasferire armi e bagagli, definitivamente, nella Grande Mela, ritagliandosi periodicamente, con la moglie Aida, lunghe vacanze nell'azzurro italiano di Rapallo. Il programma gare di quelle due giornate genovesi, nei limiti imposti dalla struttura dell'impianto, fu praticamente onnicomprensivo: maschili, 60, 400, 800, 1500, 3000, 60 ostacoli, alto, asta, lungo, triplo, peso, 2000 marcia, staffetta 200 x 1-2-3, femminili, 60, 400, 800, 60 ostacoli, alto, lungo, peso, staffetta 200 x 1-2-3. La rivista federale dette, a consuntivo, il voto: "Nel concerto polifonico non si è potuto evitare, come giusto e come umano, che qualcuno stonasse e si levassero alcune stridenti stecche. Ma le sue grandi riserve d'energia hanno consentito all'atletica italiana di uscire dall'evento a pieni voti, con la patente della maturità. Genova non poteva dare di più a tutti noi, né d'altra parte nessuno aveva chiesto di più. Si voleva un esame, si tendeva a porre un quesito, si esigeva una risposta soddisfacente: tutto ha coinciso con le attese". Questo, nel 1970. Sarebbero poi venute altre stagioni, e un ciclone si sarebbe abbattuto sulla città nel febbraio 1972 quando nel Palazzo della Fiera avrebbe fatto ingresso – tra folle dionisiache, l'albergo assediato da ragazze infoiate, una potenza agonistica di rara espressività – un ventitreenne italiano recuperato in Sud Africa, in poche ore ammesso di diritto nella migliore letteratura sportiva popolare, di nome Fiasconaro Marcello.